Il Vangelo del Papa che non vuole più giudicare
ENZO BIANCHI
DICEVANO i rabbini che Dio ha una capacità che noi umani non abbiamo: quella di dimenticare i peccati che commettiamo, dimenticarli perché cancellati e, dunque, considerati come non commessi. Noi possiamo perdonare, ma non dimenticare; Dio invece, quando perdona i peccati, li dimentica.
È dunque nella tradizione sia ebraica che cristiana proclamare che la misericordia di Dio è infinita, che Dio condanna il peccato, il male commesso, ma non vuole né la morte né la condanna del peccatore. Anche Gesù di Nazareth – secondo un brano evangelico che ora troviamo al capitolo 8 del Vangelo di Giovanni, ma che nella chiesa antica ha faticato a trovare una collocazione certa e documentata, a causa del messaggio scandaloso che conteneva – di fronte a una donna sorpresa in flagrante adulterio disse: “Donna, nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno! Va’ e non peccare più!” (Gv 8, 10-11). È in fedeltà a questa “buona notizia” che papa Giovanni, nell’enciclica
Pacem in terris cinquant’anni fa affermava che non bisogna “mai confondere l’errore con l’errante” e che “l’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona” e va quindi trattato con misericordia e compassione.
Da quando ha assunto il ministero petrino, papa Francesco proclama la buona notizia cristiana per eccellenza, il Vangelo che è molto semplice: Dio è amore universale infinito, il suo amore non necessita di essere meritato, la sua misericordia vuole raggiungere tutti gli uomini, tutti peccatori, cioè responsabili di un cattivo vivere e operare. Perché questo messaggio di papa Francesco sorprende, scandalizza, turba e intriga? Dobbiamo ammetterlo: perché abbiamo alle spalle decenni di intransigenza cattolica e, negli ultimi tempi, un moltiplicarsi di voci nella Chiesa cariche di severità, esigenti, tese a un ministero di condanna che sembrava assorbire in sé tutto il messaggio cristiano… In verità non c’è alcun mutamento sostanziale nel magistero papale: Giovanni Paolo II ha esaltato la misericordia attraverso un’enciclica e l’istituzione di una “domenica della misericordia” e Benedetto XVI ha messo al centro della sua predicazione questo amore-carità che è l’ultima definizione del Dio narrato da Gesù Cristo.
Se Gesù ha detto all’adultera “neanche io ti condanno”, papa Francesco non può dire altro di fronte a un uomo, a una donna che sono peccatori come gli altri: ciascuno di noi, se onesto, può al massimo dire di aver commesso peccati diversi, ma non di essere senza peccato. “Chi sono io per giudicarli?” ha detto il Papa riguardo a chi ha un orientamento omosessuale e magari comportamenti che per la Chiesa restano peccati. Ha detto quello che deve dire un cristiano che sa rimettere a Dio il giudizio. La Chiesa, e dunque i suoi ministri, possono e devono discernere ciò che è male, denunciarlo, mettere in guardia dal male, ma non possono giudicare chi commette il male. Lo stato emette un giudizio su ciò che è delittuoso secondo la sua legge e commina anche una pena al colpevole, ma un semplice cristiano e nemmeno il Papa stesso possono farlo: il giudizio lo rimandano a Dio. Questo non è buonismo, non è annebbiamento dell’esigente etica cristiana, non è un inseguire mode o posizioni mondane: è far risplendere la verità del Vangelo senza che questa abbagli chi la vuole cercare.
In questo senso il Papa mi sembra richiamare anche a una lettura necessaria e urgente oggi nella Chiesa: nella foga della “tolleranza zero” a volte non si sa più distinguere tra ciò che è male secondo la Chiesa, i peccati, e ciò che è male secondo la legge dello stato, idelitti. Quando c’è un reato, per il cristiano come per chiunque altro sottoposto alle leggi dello stato, la giustizia deve intervenire ed esercitare il suo potere di condanna, ma su ciò che è solo contraddizione alla legge di Dio e non è delitto per lo stato, nello spazio ecclesiale è prevista la confessione, il riconoscimento della colpa, la richiesta di perdono a Dio che sempre lo concede.
Per chiunque presieda una chiesa o una comunità, non è facile camminare sul filo del rasoio: ribadire con forza ciò che è bene e denunciare ciò che è male, ma continuare a esercitarsi nella misericordia verso chi, tentato, soccombe e compie il male. Chiunque governi nella Chiesa deve essere saldo nella fede e nella dottrina, ma con il cuore misericordioso plasmato da Dio: il Dio che lascia novantanove pecore nell’ovile e va in cerca di quella che si è smarrita, il Dio che attende il figlio che si è allontanato e fa più festa per lui che per l’altro che non aveva mai avuto il coraggio di andarsene, il Dio che sulla croce, in Gesù perdona quelli che lo crocifiggono e lo disprezzano. Questo messaggio è da sempre scandaloso per gli uomini devoti e religiosi, è follia per gli intellettuali che confidano nel loro pensiero, ma questo è il cristianesimo.
Cosa dunque è veramente grave nella vita di un cristiano? È grave giudicare gli altri con intransigenza e livore, è grave e ipocrita condannare con forza e severità gli altri perché commettono atti che sovente proprio chi condanna compie a sua volta. È ancor più grave se dei comportamenti peccaminosi diventano mezzi di ricatto, di potere, di complicità, fino a condurre battaglie comuni contro “altri” sentiti come nemici.
Mi sia permesso di confessare che chi come me, come tanti monaci, dedicano la maggior parte del loro tempo all’ascolto degli altri, se ascoltano veramente anche Dio, avvertono la responsabilità di annunciare l’amore di Dio che non deve mai essere meritato, la responsabilità di essere misericordiosi come lo è il loro Padre che è nei cieli. Chi non giudica non sarà giudicato, chi fa misericordia otterrà misericordia: queste sono parole di Gesù, non del Papa. È in questa comprensione del Vangelo che papa Francesco ha detto all’episcopato brasiliano: «Serve una chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia non è possibile inserirsi in un mondo di “feriti” che hanno bisogno di comprensione,di perdono, di amore».
(l’autore è priore di Bose)
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