Matilde Gioli: «Dite agli uomini che devono tornare a prendersi cura delle donne»
Lanciata dal Capitale umano di Virzì, l’attrice ventisettenne ha in uscita un film di D’Alatri e una fiction di Raiuno. Non sapeva nulla di cinema, si arrangiava lavorando nei pub e come istruttrice di nuoto. Poi, il cinema («Ma resta in discussione, ho ancora voglia di studiare il cervello») e la perdita del papà: «Stargli accanto in ospedale mi ha fatto diventare forte. Vorrei un marito come lui, che ha voluto tanti figli, era premuroso con mia madre. Invece oggi gli uomini fanno i capricci, si fanno desiderare». A lei, uno ha spezzato il cuore e dopo nulla è più stato come prima…
Nelle recite scolastiche, Matilde Gioli interpretava al massimo l’albero. «L’albero, non la principessa, che pure mi proponevano per via degli occhi azzurri e dei capelli lunghi, ma io volevo stare in fondo, non mi piaceva farmi vedere», racconta. Se tre anni fa le avessero detto che avrebbe avuto all’attivo dieci tra film, fiction e corti, si sarebbe fatta una risata. Invece, per lei, il 2017 si è aperto con le prime copertine sulle riviste e, quattro film e una fiction in uscita. Mamma o papà? di Riccardo Milani, in cui è la giovane fidanzata di Antonio Albanese, è appena uscito. The start up di Alessandro D’Alatri, in cui è una bocconiana in carriera, sarà nelle sale dal 6 aprile. E la serie tv di Raiuno Di padre in figlia, sempre di Milani, in cui è la secondogenita ribelle di Alessio Boni e Stefania Rocca, andrà in onda dall’11 aprile.
A 27 anni, Matilde non è più solo una promessa del cinema. Eppure, quando per caso fece un provino con Paolo Virzì non l’aveva mai sentito nominare. Era una ventiquattrenne che studiava Filosofia, allenava una squadretta di bimbe del nuoto sincronizzato, attraversava Milano in motorino tutto il giorno. La mattina, in aula per le lezioni. Alle 14,30, a casa per il pranzo. Poi, in piscina: tre ore con le bimbe e tre ore si allenava lei. Studiava da mezzanotte in poi. Fra una cosa e l’altra, in motorino col freddo o la pioggia, accompagnava il fratellino a basket o a calcio. Nei weekend, faceva la cameriera, la barista, la «piedista» alla fiera della scarpe di Milano, dava ripetizioni di latino e greco. Tempo per andare al cinema non ne aveva. Voglia nemmeno: «Non conoscevo gli attori, se gli amici parlavano di registi e Oscar, facevo scena muta». Poi, un giorno, dovendo pagare un po’ di multe prese — appunto — in motorino, partecipa a un provino per «comparse ventenni». Paolo Virzì ne fa una delle protagoniste del Capitale umano, che sarà un successo. Ai Nastri d’Argento, lei vince il Premio Biraghi per gli esordienti. Sarà poi con Diego Abatantuono nel film Belli di papà, in una puntata di Gomorra diretta da Francesca Comencini, ma la metà dei lavori sono di giovani registi. Tipo di Directo Kobyashi che, per riuscire a distribuire il suo Solo per il weekend, ha venduto l’auto, o 2Night di Ivan Silvestrini, che è quasi tutto girato in una macchina a Roma, con due soli attori. Lei spiega: «Mi piace mettermi a disposizione di chi inizia e ha pochi mezzi. Pazienza se si guadagna poco e si lavora in condizioni non comodissime». Poi, lascia a mezz’aria la forchetta con cui sta divorando una pizza, mi guarda come a chiarire un pensiero fondamentale: «Quando fai l’attore, però, parlare di scomodità è sbagliato. Al massimo, non hai un camper dove rilassarti fra un ciak e l’altro. Scomodo è quando fai la cameriera di notte, porti vassoi pesantissimi con 80 birre, hai un secondo in piedi per mangiare un panino» (Sopra il titolo, Matilde Gioli alla cerimonia dei David di Donatello 2016. Sotto, sempre dal suo account, Matilde fra Valeria Golino e Paolo Virzì sul set del Capitale umano).
Intervista nella trattoria sotto casa sua. I camerieri la trattano come una sorellina minore. Giurano d’averla vista praticamente in pigiama. La pregano di passare a salutarli, un giorno, quando sarà vestita come sui tappeti rossi. In abito lungo rosa, magari, com’era al festival di Venezia dove ha vinto il Premio L’Oréal per il cinema. Le chiedono di salutare Fabio Fazio, perché è stata la sua valletta a Rischiatutto. Matilde abita qui da una vita. Suo papà aveva uno studio dentistico, casa e bottega nello stesso palazzo nel quale ora lei vive da sola, a un passo dall’appartamento dove stanno la mamma e tre fratelli e dove suo papà non c’è più. Se l’è portato via un tumore al cervello negli stessi giorni in cui Paolo Virzì portava via lei dalle corse in motorino, dalla piscina di nuoto sincronizzato, dai vassoi pesanti dei pub. Ogni tanto, su Instagram, Matilde pubblica una foto del papà, hashtag «mi manchi». Ma anche hashtag «vorrei abbracciarti adesso» e «ma dove sono quelli come te, papà?». (Sotto, Matilde Gioli al Festival di Venezia 2016).
Suo papà le manca ancora tanto?
«Avevo la famiglia perfetta. I miei si sono innamorati da giovani accomunati dal desiderio di avere tanti figli, crescerli sani, sereni. Non li ho mai sentiti dire “ora penso a me”. È arrivato prima Filippo, che ha un anno più di me, poi io, quindi Francesco e Eugenia».
È vero che, sulle caviglie, ha tatuato le iniziali dei nomi dei suoi genitori?
«L’ho fatto a 16 anni: la F di Francesca, la S di Stefano. Scoprire che papà aveva un tumore è stato scioccante, era un uomo di 53 anni che correva la mezza maratona. Ma, per me è stato meno scioccante degli altri, perché io di papà sapevo cogliere tutte le sfumature e, prima dell’esito degli esami, avevo respirato la sua inquietudine, intuito che lui — da medico — già aveva capito. Se n’è andato nel giro di un anno».
Com’è stato stargli accanto in quell’anno?
«In ospedale, si è affidato a me, si è lasciato curare e mi ha fatto sentire forte. Lì, ogni giorno, moriva qualcuno. Mi sembrava di stare in guerra o nel mezzo di un’epidemia. Pensavo: non sono abituata a veder morire tanta gente». (Sotto, un ritratto di Matilde Gioli firmato Paolo Santambrogio).
Come l’ha sopportato?
«Far pace con la morte è come quando cambi città: all’inizio, sei spaesato, hai paura, ma le vie, man mano che le vivi, diventano tue».
Perché sotto una foto di sua padre ha scritto «non ci sono più gli uomini come te»?
«Papà ha sempre corteggiato mamma, l’ha sempre protetta, anche se lei è una donna contemporanea, laureata, con tre abilitazioni all’insegnamento. Faceva lui i lavori più pesanti, le porgeva la sedia, le apriva la porta. Invece, oggi, gli uomini fanno capricci, cercano attenzione, si fanno desiderare».
(Silenzio).
«Mi distrugge pensare che non lo rivedrò. L’altro giorno, mi sono resa conto che non chiamerò più nessuno “papà”. Stavo guidando e ho ripetuto questa parola in tutte le intonazioni possibili… Papà. Papà. Papà. E quando mi manca, lo chiamo con il pensiero. Se sono in difficoltà, mi giro e me lo immagino di fianco. Sarà autosuggestione, ma funziona: lo faccio e tutto va». (Sotto, dal suo account Instagram, Matilde Gioli bambina con il papà e il tatuaggio fatto sul braccio in sua memoria).
…Ha gli occhi lucidi.
«Se penso alla nostra famiglia insieme ci vedo a Madesimo, in montagna, d’estate. Vedo un prato sulla vetta, un telo enorme per terra, noi fratelli che facciamo baruffa per la distribuzione dei panini. Siamo stati tanto tutti insieme. I primi tempi, il posto vuoto a tavola era insopportabile».
E oggi?
«Io oggi mi sento un po’ il padre dei miei fratelli più piccoli. Cerco di spiegare loro che non devono essere arrabbiati con non si sa chi. Pensare “perché proprio a me?” non serve a nulla».
Quando ha pianto l’ultima volta?
«Piango poco. Di solito di notte, da sola. Ho avuto un fidanzato e quando dormivamo assieme, speravo di addormentarmi sempre prima di lui».
In un’intervista, ha detto che sarebbe stata un’attrice quando avrebbe pianto a comando. Ci è riuscita?
«Una volta sola e non mi è piaciuto: per farlo, ho dovuto pensare alle cose brutte che mi sono successe. Mi è sembrato di mercificare il dolore. Non lo farò più. Anche per questo, non avendo mai studiato recitazione, ora voglio affidarmi a un coach. Sento di rendere al 30 o 40 per cento delle mie potenzialità. Finora, ho interpretato o ragazze simili a me. Se erano più antipatiche, o più timide o più sfrontate, ho attinto al data base nel mio cervello e aggiunto quell’atteggiamento».
Che cosa contiene il data base del suo cervello?
«Di tutto. Quando sono in metro, mi fisso su una persona, immagino la sua storia. Penso: sta andando dall’amante, lei si aspetta che lui lasci la moglie, lui non ha molta voglia di farlo… Ho un’immaginazione enorme». (Sotto, nella foto LaPresse, Fabio Fazio e Matilde Gioli, in una delle due puntate di cui è stata valletta).
L’immaginazione le sta tornando utile per fare l’attrice.
«L’ho sempre avuta, ma non sapevo dove incanalarla: non so disegnare, non so cantare, avvertivo una creatività con le ali tarpate. Da bambina, fingevo di essere un’altra persona, parlavo da sola… E, crescendo, quei momenti mi mancavano. Volevo esprimermi, ma non sapevo come fare senza sembrare pazza».
Eppure, il cinema non le era venuto in mente.
«Mai. Il provino l’ho fatto solo perché era alla Canottieri e quel giorno dovevo accompagnare lì mio fratello a basket. Quando mi hanno mandata da Virzì, c’è stato anche il momento imbarazzante in cui non sapevo verso chi dirigermi».
Fino ad allora, che cosa voleva fare da grande?
«La filosofa della scienza. Volevo studiare il cervello attraverso la filosofia, in un laboratorio multidisciplinare, anche all’estero».(Sotto, Matilde nel film Solo per il weekend, di Gianfranco Gaioni).
Si è laureata con una tesi sull’Etica Nicomachea di Aristotele, si sta specializzando in Epistemologia delle Scienze Umane.
«Mi affascinano i neuroni a specchio, sono molto empatica. Cammino per strada e intercetto subito la gioia e il dolore delle persone. Per la specialistica mi mancano due esami, ma li rimando sempre per via del lavoro».
Anche la moda la cerca. È già un’affezionata delle sfilate Haute Couture di Valentino a Parigi.
«Ci vado per il piacere di vivere con Valentino e con Pierpaolo Piccioli un momento che so importante. Abbiamo un rapporto familiare e io non riesco mai a frequentare le persone per interesse».
Quindi pochi amici nel mondo del cinema?
«Ne ho, il primo è Diego Abatantuono. Sul set, è stato paterno. E quando l’ho visto sul set mi è preso un colpo: gli occhi e la fronte sono identici a quello di mio papà. Con lui mi vengono gli addominali a forza di ridere. Ci sentiamo, vedo le partite a casa sua. Io tifo Inter, lui Milan, vado a gufare. Credo che ci accomuni la voglia di stare solo con le persone che ci vogliono bene». (Sotto, da Instagram, Matilde Gioli e Diego Abatantuono)
Che cosa non sopporta?
«Le ingiustizie. Se ne vedo, non mi manca il coraggio». L’ultima volta che ha trovato coraggio? «In metropolitana. Era pieno di studenti, all’ora in cui finisce la scuola. Seduto, c’era un ragazzo timido che, a un certo punto, starnutisce, non ha il fazzoletto, fa un macello e tutti iniziano a sghignazzare. Non la smettevano più. Mi sono alzata e ho fatto il mazzo a tutti. Qualcuno li doveva fermare. Dopo, al ragazzo, come a un fratello, ho detto: “E tu, la prossima volta, portati i fazzoletti”».
Quando ha capito che avrebbe fatto l’attrice?
«Dopo il quarto film. Ma la cosa resta in discussione».
In discussione perché?
«Mi è rimasta la voglia di studiare il cervello».
L’amore come va?
«Non va. O meglio, è un momento interlocutorio. Non è facile incontrare ragazzi galanti, attenti, protettivi».
Un giovane attore no?
«Gli attori sono animali strani. Egoriferiti, come tutti quelli che lavorano con la loro immagine. Nel nostro mestiere, il narcisismo è molto presente, forse necessario. Uno che cerca l’attenzione su di sé non ha tanto spazio per dare qualcosa all’altro. Se vuole apparire lui, a volte avere accanto una persona che fa lo stesso lavoro può anche disturbare. Discutere con un fidanzato attore diventa una lite fra donne per primeggiare». (Sotto, Matilde Gioli e Marco D’Amore nel film del 2015 Un posto sicuro di Francesco Ghiaccio).
Lei ha sofferto per amore?
«Tanto tanto tanto, ma al liceo. A 15 anni, ho preso una tranvata per il rappresentate di istituto. Aveva tante storie aperte e mi sono ostinata ad aspettare che scegliesse me. Ci è voluto un anno. Ho sofferto talmente tanto che ho tirato su una corazza che ho tuttora».
Quando scatta la corazza?
«Quando ci sono problemi. Ma finora è stato facile. Sono state sempre io sempre a lasciare, anche se ho avuto solo un paio di amori».
Quand’è che si diventa grandi?
«Quando impari a rialzarti subito».
Progetti per il suo futuro?
«Creare un’altra famiglia perfetta, con almeno due figli. Venendo da una numerosa so che essere in tanti è una ricchezza, e che ognuno è un codice unico e irripetibile. Anche per questo non mi sono mai fatta affascinare da modelli irraggiungibili e artefatti. Io ho le mie ciccette e me ne frego. Io amo pensare che ognuno di noi è uno spermatozoo che ha vinto una corsa, che ognuno di noi nasce vincente in partenza».
Sfoglio ancora il suo album di foto su Instagram. Che ci fa arrampicata su un albero nel Borneo?
«Quella sono io allo stato brado. Conservo un’anima molto selvatica che viene fuori quando vengo liberata nella natura. Immagini un cane che vive legato e immagini di slegarlo in un prato sui monti. Quel cane ubriaco di libertà e di gioia sono io».(Sotto, Matilde in una scena di Belli di papà, con Francesco Facchinetti).
18 marzo 2017