Come ci vediamo visti..

Una riflessione filosofica sul “come ci vediamo visti” il bene più ricercato in epoca di social e condivisione
Salviamoci almeno la reputazione
MARCO BELPOLITI
 
 
L’ultima cosa che impariamo nella vita, ha scritto una volta George Eliot, è l’effetto che facciamo agli altri. Eppure nell’età dei social network questo è diventato una delle cose più importanti. Come ci ricorda la filosofa Gloria Origgi in “La reputazione” (Università Bocconi Editore), possediamo due Io, che ci condizionano, sia per quello che siamo sia per come agiamo. Da un lato, c’è la nostra “identità”, composta di esperienze propriocettive, sensazioni fisiche incarnate nel corpo; dall’altro, la nostra “reputazione”, il sistema potentissimo di «retroazioni del sé su se stesso che costituisce la
nostra identità sociale e che integra nell’autopercezione il come ci vediamo visti».
 
Si tratta del nostro secondo Io, che un sociologo americano, Charles Horton Cooley, all’inizio del Novecento ha definito «l’io che si riflette allo specchio». Da quando esistono quegli specchi sociali che sono il Web e i social network, e la stessa pratica del Selfie, la nostra immagine è moltiplicata nello sguardo degli altri. Di più. «L’io sociale, che controlla la nostra vita fino a condurci ad atti estremi – scrive Origgi – non ci appartiene: è la parte di noi che vive negli altri». La vicenda di Tiziana, come di altre ragazze, le cui immagini private sono state diffuse nel web con conseguenze tragiche, dimostrano la veridicità di quest’affermazione. Vergogna, imbarazzo, amor proprio, colpa, orgoglio sono i principali sentimenti ed emozioni che l’io sociale provoca in noi, in particolare in chi cura e diffonde le proprie immagini usando Facebook, Twitter o Instagram.
C’è stato un tempo in cui tutto questo riguardava in forma più controllata re e regine, imperatori e papi, poi potenti e politici, quindi divi e dive del cinema, e infine tutte le pop star del sistema mediatico. Infine l’io sociale si è dilatato a dismisura e la reputazione è ora parte sostanziale dell’identità di milioni d’individui. Origgi ricorda che reputazione significa «essere riconosciuti tali dagli altri». Il che produce un effetto paradossale: non c’è proporzione tra il valore psicologico e sociale che attribuiamo alla reputazione e la sua esistenza puramente simbolica. Diamo grande valore all’immagine di noi stessi custodita dagli altri, così da essere ossessionati dalla nostra stessa reputazione, con l’eccezione per le celebrità dello star system, la cui considerazione interessa probabilmente tutti.
Il nostro secondo Io, per cui tanto facciamo, non è esattamente l’opinione degli altri, bensì quello «che crediamo essere l’opinione degli altri o, a volte, ciò che vorremmo che gli altri pensassero di noi». Un personaggio letterario è emblematico, ricorda l’autrice: Gatsby, il protagonista del romanzo di Fitzgerald. Il suo successo è dato dal comunicare agli altri di aver ricevuto da loro proprio l’impressione che sperano di produrre. Restituisce la miglior reputazione grazie al suo sorriso; così accade con il giovane Nick Carraway.
C’è un’espressione molto di moda tra coloro che operano nel Web: «capitale reputazionale ». Indispensabile per ottenere un posizionamento sociale, comporta l’accesso a cerchie sociali decisive per essere riconosciuti e ottenere potere e prestigio, e dunque anche denaro. Da quando l’utilizzo dei media è diventato alla portata di tutti grazie al Web, da quando esiste il modo per farsi vedere attraverso i social, la classifica di notorietà e di stima, è diventata fondamentale. Qualcosa che estende e moltiplica il quarto d’ora di notorietà evocato da Andy Warhol. Ma la reputazione è qualcosa di più della notorietà. Permette di accrescere quel capitale, proprio come si fa in borsa e nella finanza: è moneta simbolica. Robert K. Merton, sociologo americano, l’ha chiamato “effetto San Matteo” da un passo del Vangelo: «A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Più si possiede un capitale reputazionale, più si può aumentarlo. Esiste inoltre un nesso stretto tra la reputazione individuale e l’appartenenza a un gruppo stimato. Un premio Nobel per l’economica, Jean Tirole, ha mostrato come la reputazione del singolo aumenti se questi poi appartiene al gruppo che ne possiede già. Era così prima della introduzione di Internet? Solo in parte.
La reputazione è un gioco che gli esseri umani fanno da sempre, ricorda l’autrice: il gioco della credibilità. Una volta la reputazione la decidevano istituzioni come la Chiesa o il Partito. Oggi la reputazione pone le persone al di sopra delle regole di appartenenza alle istituzioni. Basta a se stessa, per questo viene inseguita ad ogni costo. Inoltre, a livello del controllo sociale ciascuno può verificare in prima persona la misura della propria reputazione, e questo fornisce sovente una sensazione d’onnipotenza. Il ranking come misura della propria personalità. Siamo passati dal pudore alla spudoratezza. Origgi sostiene che l’era della informazione sta tramontando a favore dell’era della reputazione, in cui l’informazione «avrà valore solo se già filtrata, valutata e segnalata dagli altri», tanto da essere uno dei vari aspetti di quella che viene chiamata «l’intelligenza collettiva». Vero.
Tutto questo ha però almeno un risvolto negativo: la reputazione è una strategia fragile; gli specchi in cui ci moltiplichiamo sono così numerosi che non è facile mantenerne il controllo. Più la reputazione cresce, più è difficile gestirla. Basta un nonnulla, come mostrano casi anche recenti, per perderla, per franare dall’Olimpo degli eletti a quello degli esclusi. Il rancore e il risentimento sono sempre in agguato, rappresentano l’altra faccia di questo specchio, da cui la reputazione non riesce, o non può, staccarsi. Nessuno oggi può fare a meno di questo formidabile sistema di rimando del sé su se stesso. Senza, conclude l’autrice, saremmo come quei cantanti che stonano al concerto perché il circuito del microfono non riesce a rinviargli la propria voce. Non ci resta che esibirci, sperando di non steccare.

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Ama il link tuo come te stesso. La Chiesa al tempo della rete

Ama il link tuo come te stesso. La Chiesa al tempo della rete

 
Oggi il “prossimo” è chi è “connesso” con me. La lezione di Spadaro al Festival del Diritto

 

Internet sta cambiando il nostro modo di pensare e di vivere. Le recenti tecnologie digitali non sono più tools , cioè strumenti completamente esterni al nostro corpo e alla nostra mente. La Rete non è uno strumento, ma un «ambiente» nel quale noi viviamo. Forse anche qualcosa di più, un vero e proprio «tessuto connettivo» della nostra esperienza della realtà.
Ha scritto Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni del 2010: «I moderni mezzi di comunicazione sono entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio e instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio».

È tanto più vero se consideriamo come la Rete sia diventata importante per lo sviluppo delle relazioni tra gli appartenenti a quella che ormai viene comunemente definita «generazione Y», cioè quella dei giovani nati tra gli Anni Ottanta e il Duemila. La generazione Y è caratterizzata da una grande familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. È la generazione del cosiddetto web 2.0, nel quale i rapporti tra le persone sono al centro del sistema e dello scambio comunicativo, almeno tanto quanto lo sono i contenuti.

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Viene rimossa la parola fallimento


Nell’aria dei nostri giorni appare a volte, ma è subito rimossa, la paura del fallimento. Le grandi parole come speranza e fiducia, soprattutto nello spazio cristiano, sembrano vietare la possibilità di leggere un evento o la propria vita come un fallimento. Questa mi sembra una malattia spirituale del nostro tempo: abituati a cercare il successo, l’approvazione degli altri, impegnati in compiti “buoni” e conformi al Vangelo, non siamo più capaci di intravedere la possibilità della debolezza e del conseguente fallimento.

Sembra che noi cristiani abbiamo già “le parole pronte” per impedire di constatare il fallimento, e quindi di dirlo, e per poterlo vivere non come un dolore reale, un evento che ci può cogliere nella nostra lunga vita. Eppure ci dichiariamo discepoli di un maestro, un profeta che ha conosciuto come esito della vita il fallimento: il rifiuto della gente, l’abbandono e il tradimento dei suoi discepoli, una morte nella vergogna di chi è giudicato come uomo nocivo al bene dell’umanità, addirittura un indemoniato, un pazzo, un uomo falso.

È sorprendente, di conseguenza, che noi cristiani parliamo facilmente e anche sorridendo di “scandalo della croce” (Gal 5,11), ma senza sentirci intrigati da esso, senza assolutamente pensare che questa potrebbe essere la sorte che ci attende.

Eppure il senso del fallimento non può essere rimosso, e quando si conoscono non superficialmente alcuni grandi testimoni cristiani si deve constatare che il fallimento è stato vissuto drammaticamente nelle loro vite. Perché? Perché in ogni persona è presente, fin nelle sue profondità, prima ancora del peccato, quella che nella tradizione cristiana è detta infirmitas o, con altri sinonimi, fragilitas e miseria.

L’infirmitas, la debolezza, è la condizione della nostra carne, se siamo capaci di leggerla, e più “lo spirito è pronto”, più “la carne è debole” (cf. Mt 26,41; cf. Mc 14,38). La debolezza, l’infirmitas, è in noi radicale: siamo fragili e deboli fino a trovarci nella miseria, siamo inadeguati ad assecondare lo Spirito che in noi geme e sospira (cf. Rm 8,26), e per questa debolezza siamo costretti a cadere, a fallire.

Si può dunque fallire nella vita, anche nella vita che si è voluta cristiana, si può giungere al pensiero di una vita perduta, di una vita che non si è stati capaci di salvare. La vita passata appare come brandelli di carne lacerata non più componibili, non può disponibili per essere l’immagine di una vita. L’unica certezza è che il silenzio che avvolge il fallimento e le cadute, le preserva dal disperdersi nella nientità, dall’avere la sorte di una stella in un buco nero dell’universo. Si nasce e si rinasce, si cade e ci si rialza, si ricomincia sempre: il protagonista non sono io.

A nulla giova la mentalità mondana che pretende ci debba essere sempre e solo successo, riconoscimento, quasi “un’inarrestabile ascesa” (Sal 48,19)! Nella vita c’è anche il fallimento, la caduta, e chi arriva a dire che ha sbagliato tutto va ascoltato in silenzio e non va consolato con parole a buon mercato. Bernardo giungerà ad esclamare: “O beata, desiderabile debolezza (optanda infirmitas), colmata dalla potenza di Cristo, che mi permette non soltanto di essere debole, ma anche di fallire interamente a me stesso, per essere reso stabile dalla potenza del Signore delle potenze. ‘La sua potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza’ (2Cor 12,9)”.

Davvero, la forza di Dio trova la sua misura nella misura della nostra debolezza. Ma qui siamo già al di là del fallimento, come Paolo che arriva a dire: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). “Naufragium feci, bene navigavi”: non lo si dice nella tempesta, ma quando la tempesta è finita e si è approdati al porto desiderato (cf. Sal 106,30) o, comunque, all’approdo che ci salverà.


Enzo Bianchi