Cosa pensa un intellettuale della vita del monaco

CULTURA

Della vita monastica so poco. Ma di quel poco, è il diverso rapporto con il tempo ad affascinarmi. Come tanti, vivo il tempo come una risorsa sempre più limitata, ne avverto la scarsità, subisco l’affanno delle scadenze, degli appuntamenti, delle troppe cose da fare. Del tempo, da tempo, non mi sento più padrone, me ne è sfuggito il bandolo.
Il monaco, per me, è prima di tutto un padrone del proprio tempo. Uno che è riuscito a domarlo, a rimanerne in arcione.

Una persona che ha trovato, nella regola, la maniera di sottrarsi allo scialo nevrotico delle sue ore e dei suoi giorni. Per dirla molto semplicemente, spero non semplicisticamente: una persona che ha il tempo per pensare. La preghiera, la riflessione, la meditazione, sono pensiero allo stato puro, pensiero liberato.
Tutte le volte che incontro Enzo Bianchi (troppo poche: l’ho già detto che non dispongo del mio tempo come vorrei e dovrei) sento, insieme all’amicizia, un poco di soggezione. Non è “normale” soggezione intellettuale di fronte al sapiente, allo studioso, all’uomo di lettura e di scrittura. E’ una speciale ammirazione per una persona che, da molti anni, ha liberato il suo tempo da molti affanni “civili”, da molte servitù, e lo ha strutturato attorno alla libertà di pensare e di farlo quotidianamente.
Attraverso di lui, e attraverso i suoi libri, le conversazioni, l’amicizia purtroppo rarefatta ma solida, mi sono fatto l’idea che la condizione monastica (vorrei dire: il mestiere del monaco) sia una delle ultime, spero inviolabili ridotte dell’attività intellettuale; e che la vita monastica sia costruita, non so quanto scientemente, come un antidoto, non solamente religioso o spirituale, alle tante derive anti-intellettuali del nostro evo, che del pensiero pare sentire la necessità solo quando il pensiero stesso sia la materia prima di qualche attivitàeconomicamente profittevole. Pensare per la necessità di pensare, per il piacere di poterlo fare senza che costi e ricavi siano immediatamente leggibili, e godersi il proprio sguardo sul mondo, sulle persone, sulle cose, come il dono più prezioso che la vita può consegnarci. Pensare per gratuità, per amore del pensiero, per devozione alla più importante delle facoltà che abbiamo in dote, perché quando si smette di pensare si smette di essere liberi.
Così, quando penso a Enzo, lo penso che pensa. E magari non è vero, sta facendo altro, cose di cucina o di orto o perfino qualcuna delle vili incombenze burocratiche che mangiano il tempo a noi umani. Ma l’idea che mi sono fatto, di lui, è che sia capace di dare custodia — anche per mio conto, visto che non ne sono capace — al tempo di pensare, di leggere e di scrivere. Per quanto ne abbiamo, per quanto ne manca da vivere, il tempo è meno nostro, o più nostro, a seconda dell’uso che siamo capaci di farne. Enzo ne ha fatto buon uso, gli chiederò consiglio, forse non è tardi.

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