Grazie ai tablet i nativi digitali sono protagonisti di una rivoluzione dell’apprendimento. E c’è chi parla di nuovo metodo Montessori
I bambini touch
MASSIMO VINCENZI
“Inativi digitali hanno vinto la battaglia ed è questa la loro fortuna”. Marc Prensky, lo scrittore americano che ha inventato il termine non ha dubbi. E la rivoluzione dei figli della nuova era prima ancora che nelle ricerche scientifiche è scritta nella vita di tutti i giorni. Basta guardarsi attorno per notare la facilità con cui i bambini padroneggiano iPad, tablet e smartphone. E la vera novità, “la battaglia vinta”, è che questa loro abilità li renderà (giurano gli studiosi) ragazzi e poi adulti più intelligenti, più svegli, più preparati dei loro fratelli maggiori, per non parlare dei loro genitori. Molti dei quali però restano scettici sul confine ad osservare quel che accade: “Ma commettono un grave errore. In un mondo dove tutto è schermo, tutto va veloce, pretendere di usare ancora i vecchi metodi per attirare l’attenzione è fatica sprecata. Oltre che dannosa. Il flusso va governato non ignorato”, spiega ancora Prensky.
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK
La rivista The Atlantic dedica alla “Touch generation” un’inchiesta di copertina. A Monterrey, in una palazzina, immersa tra la nebbia e la sabbia dell’oceano Pacifico si trovano programmatori e sviluppatori di applicazioni per piccolissimi: dai due ai cinque anni. I bambini riempiono le stanze e non staccano gli occhi dai video che li circondano: attratti come Alice dal suo specchio. E come Alice scivolano senza bisogno di aiuto nel paese delle loro meraviglie: «Questa è la prima vera differenza», dice Warren Buckleitner, un guru in questo campo, nonché organizzatore dell’evento. Questo vuole dire che i piccoli sono autosufficienti «si muovono come pesci nell’acqua» per usare la definizione di un analista dell’Huffington Post. I gesti sono la loro guida infallibile, a quest’età infatti posseggono la capacità di rappresentazione enattiva: ovvero non classificano gli oggetti con le parole ma li associano ad azioni, per dire ho sete imitano l’atto di portarsi il bicchiere alla bocca. Da qui la naturale svolta con gli schermi touch, che tolgono di mezzo la mediazione dei genitori: sono immediati, comprensibili, non servono spiegazioni. Prendo quella macchinina sul video e la trasportoda un’altra parte. Uso il mio dito come un pennello e tutto si colora come per magia, come se il pensiero si trasformasse subito in qualcosa di concreto. Warren Buckleitner cita il metodo Montessori: «Le mani sono il prolungamento dell’intelligenza umana. C’è un momento in cui il bambino deve scoprire quante più cose possibile e in questo l’i-Pad è un’occasione unica». Uno studio dell’università di Georgetown prova inoltre che i bambini hanno un rapporto di fiducia con la tecnologia: credono nei messaggi che raccolgono e si comportano di conseguenza. Dunque imparano più in fretta. E a differenza delle generazioni che li hanno preceduti imparano a cavalcare l’onda: passano rapidamente da una nozioneall’altra in maniera orizzontale, toccando perlustrano zone diverse del sapere. Mentre i loro fratelli più grandi perdevano tempo a scavare buche di conoscenza: ore e ore su uno stesso argomento. «Ma non è superficialità, è una qualità diversa, nuova», spiegano gli esperti.
Persino l’associazione dei pediatri americani inizia a cambiare rotta: nel 1999 sconsigliavano ai genitori di far vedere la tv ai loro figli, adesso parlano di «telefonini intelligenti e di un uso moderato delle nuove tecnologie». Non una benedizione insomma, ma di certo la fine di una battaglia ideologica. Il mondo scientifico rimane, ovvio, prudente: «Non ci sono ancora studi che certificano con certezza gli effetti neurologici dell’uso di questiapparecchi: i bambini come gli adulti hanno sensibilità diverse ed è ancora difficile trarre conclusioni ». Le ricerche più serie si occupano del rapporto tra tv e piccoli spettatori e da qui qualche idea può venire. Infatti si scopre che sono molto meno passivi di quello che pensiamo davanti allo schermo e interagiscono con i personaggi che vedono. Ed è di questa feritoia che si approfittano i sostenitori del tablet è bello.
Lisa Guernsey dirige l’Early Education Initiative e il suo ultimo libro «How Electronic Media – From Baby Videos to Educational Software – Affects Your Young Child» è considerata una Bibbia. Al
New York Times dice: «Con il touchscreen i bambini diventanoideatori e creatori del loro divertimento e del loro apprendimento». Reduce da un viaggio a Zurigo, dove tutte le scuole materne ed elementari considerano l’iPad uno strumento indispensabile di lavoro, aggiunge: «Ci sono app che stimolano i piccoli alunni a costruire il loro mondo e a raccontarlo». Una in particolare permette di registrare la propria voce e di descrivere quello che si vede durante una virtuale passeggiata nella natura. Le parole, i gesti, i suoni si impastano in una unica narrazione e i bambini organizzano tutte queste informazioni in maniera logica ed efficace. Parlando con i personaggi da loro stessi disegnati, imparano anche ad interagire con le persone reali, nella vita vera.
Le scuole sono le prime cartine tornasole della trasformazione in corso. Negli Stati Uniti la battaglia per digitalizzare il sistema sin dai primi anni di formazione ha un testimonial illustre: Bill Gates. Il leader della Microsoft investe molte risorse della sua fondazione nella missione e in una recente intervista spiega: «Pensate se i nostri figli potessero imparare la matematica con la stessa passione che adesso dedicano ai videogame». E un altro gigante come Robert Murdoch ha messo in campo la forza della sua NewsCorp in un progetto che ha come slogan: «Un tablet in ogni classe».
Il mercato se n’è accorto da qualche mese. Nel 2006 il 90% dei genitori ammetteva di dare cellulari e simili in mano ai figli, secondo un’altra ricerca più recente due terzi dei bambini entro i sei anni possiedono o giocano abitualmente con gli iPad. Numeri troppo grandi per non attirare i dollari e così solo nell’Apple Store si contano 40mila baby app. E poi ancora ecco tablet,tutti colorati e molto più resistenti disegnati apposta per attirare i giovanissimi clienti, o meglio le loro mamme e i loro papà. Una applicazione di un gioco didattico, dove si simula il lavoro dentro un salone da parrucchiere, è stato scaricato un milione di volte nella prima settimana del suo lancio. Tutti i giornali, non solo le riviste specializzate, sfornano ogni settimana la classifica delle migliori baby app. Le vendite degli e-book junior crescono con numeri esponenziali, tanto che alcuni professori pensano di rottamare quelli tradizionali: «Non servono più. Inutili farci tante domande, i bambini amano questi nuovi libri dove i protagonisti parlano, si sentono i suoni dell’avventura. Siamo noi che dobbiamocambiare la testa, il metodo didattico: loro sono nel giusto».
E se Wired scrive che ci sono segnali di effetti positivi dei tablet sui piccoli pazienti autistici, qualche preoccupazione rimane. In Gran Bretagna, rivela la Bbc, sono sempre di più i bambini che devono ricorrere alle cure degli psichiatri per guarire dalla dipendenza da smartphone. Il dibattito è aperto, anche se forse ha ragione uno dei programmatori che stanno nella casa laboratorio di Monterrey: «Capire se è utile o no, è un punto di vista tipico di un genitore. Correre in un prato è istruttivo? Non lo so, è comunque la vita di un bambino non può essere dedicata solo a fare quello». Conta saper fare i genitori e non aver paura delle novità: tuttoall’inizio sembrava dannoso, come osserva Hanna Rosin (giornalista e scrittrice) su The Atlantic, la tv avrebbe rovinato la vista ai nostri figli, i videogiochi li avrebbero resi violenti, per fortuna non è accaduto niente di tutto questo. Anche nell’era dei new media basta il buon senso. Nel suo libro Lisa Guernesey detta regole elementari: bisogna sempre tenere presente il contesto, il contenuto e il carattere del bambino. Poi capita che uno di questi figli.com quando prende in mano l’iPad di famiglia va, forse per caso, a cercare l’applicazione LetterSchool che insegna a leggere e scrivere «come nessun libro di testo è in grado di fare». Forse per caso, o forse no.
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