Antonio Sancassani è l’anima del Mexico, il cinema diventato un’istituzione milanese
“Con film selezionati e colloqui col pubblico salvo la mia sala d’essai”
«PIACIUTO il film, signora?». «Bellissimo! ». «Grazie, grazie». C’è un cinema a Milano dove il proprietario ti aspetta all’uscita e ti chiede se sei soddisfatto. Quella cosa lì che adesso chiamano “customer care” il signor Antonio Sancassani l’ha sempre fatta, «perché io ho rispetto del pubblico, che alla fine della fiera è quello che paga, e ha diritto di dare il suo giudizio». Il cinema è il Mexico, zona Porta Genova una volta popolare e ora modaiola, una delle pochissime monosale sopravvissute a Milano. Al Mexico e al suo creatore è dedicato un documentario ( Mexico! Un cinema alla riscossa, di Michele Rho) che uscirà nelle sale il 4 maggio (a Milano dal 5, al Palestrina). I milanesi conoscono il Mexico, che è una piccola importante istituzione. Ma, in generale, se amate il cinema dovreste proprio vederlo. Vi commuoverà rimpiangere le sale che c’erano e sono state sterminate, capirete che lotta di resistenza sia mandare avanti un cinema fuori dall’abbraccio mortale della grande distribuzione, e soprattutto conoscerete lui: Antonio Sancassani da Bellagio, magro e ruvido, baffetti e naso a becco, una vita dedicata a questa passione sbocciata quand’era bambino.
«La passione per il cinema l’ho sempre avuta. Vengo da una famiglia contadina, e al cinema non mi portavano spesso. Però avevo un amico, Celestino, che nel cinema del mio paese, il Vittoria, vendeva Coca Cola e caramelle con la cassettina attaccata al collo. Mi disse che cercavano qualcuno in cabina per girare la manovella che riavvolgeva la pellicola. Ho cominciato così, a 14 anni. Conservavo i fotogrammi tagliati via per giuntare le pellicole quando si rompevano, e me li guardavo controluce quasi fossero una reliquia ». Siamo dalle parti di Nuovo cinema Paradiso, ma è tutto vero. Poi, dopo il militare, Milano: proiezionista, poi gestore di alcune sale, e alla fine degli anni 70, quando comincia la crisi, ecco l’occasione di rilevare quel cinema di quartiere. Che si chiama Savona quando viene aperto nel 1933, poi Libertà dopo la guerra, e ancora Savona, e infine Mexico: «Era l’opportunità di realizzare il mio sogno, avere un cinema mio da gestire liberamente. Tutti mi sconsigliavano, ma io l’ho fatto».
Ma gestire liberamente un cinema — per Sancassani e i pochissimi superstiti della categoria — vuol dire scegliersi i film da programmare. Difficile, difficilissimo, quasi impossibile. «Non amo pensare che uno al mattino mi chiama e mi dice: domani nel tuo cinema fai questo film. Vorrei sceglierlo io, il film per il mio locale». Ma la programmazione è in mano a chi la organizza per i grandi circuiti di distribuzione. Risultato? «Non ti danno i film. Perché non faccio parte di un certo circuito. Ma io non voglio farne parte. Perché chi ne ha fatto parte, mi riferisco alle monosale, alla fine ha chiuso». E infatti le monosale sono quasi del tutto scomparse. Prima quelle di quartiere, poi quelle del centro.
Nel documentario di Michele Rho c’è una parte che, al netto della nostalgia, risulta particolarmente dolorosa per i milanesi di una certa età. Ed è la lunga sequenza di luoghi che una volta ospitavano i cinema e ora sono negozi di abbigliamento o gelaterie. A Milano una volta c’erano 200 sale. Il corso Vittorio Emanuele veniva chiamato Piccola Broadway per la quantità di sale dove la première era un’occasione mondana con attori, registi, donne in pelliccia e perle, uomini in smoking. In ogni quartiere, anche in periferia, c’erano cinema di seconda o terza visione dove la programmazione continuava. Ci andavano le famiglie, avevano magari poltrone scomode di legno, ma l’incanto di quando si spegnevano le luci e la polvere ballava nel cono di luce del proiettore non si può dimenticare.
Il Mexico deve la sua sopravvivenza a un’idea geniale di Sancassani. Negli anni 70 aveva già cominciato a specializzarsi in pellicole musicali, che nessuno programmava, come Hair o Jesus Christ Superstar o Rocky Horror Picture Show. «In Saranno famosi di Alan Parker c’era questa sala di New York dove la gente andava a replicare, travestita e truccata, le scene di Rocky Horror. E ci ho provato anch’io». Entra in contatto con un giovane studente della scuola di teatro Paolo Grassi che si chiamava Claudio Bisio, che insieme con altri allievi organizza un piccolo cast amatoriale. Un successo fenomenale. Che dura ancora, e sono passati 36 anni. Il cast si è rinnovato, anzi si è autoalimentato, e più di 400 mila persone hanno assistito a questa visione-interpretazione. Il Mexico ha ancora sull’insegna la scritta “The Rocky Horror House”.
E poi, visto che i film tocca andarseli a cercare fuori dal recinto della grande distribuzione, Sancassani ha sviluppato un fiuto incredibile nel pescare pellicole semisconosciute e nel trasformarle in piccoli fenomeni. Il caso più noto è Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, la storia di un pastore francese trapiantato sulle montagne della Val Maira, che rimase in locandina per due anni. Oppure Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari: sei mesi di programmazione. O Il primo incarico di Giorgia Cecere con Isabella Ragonese, proiettato pure per sei mesi. Sancassani ha capito che il segreto sta nel passaparola, la sola forma di pubblicità che conosce: sa di dover ascoltare il parere della gente («Piaciuto il film, signora?»), e aspettare che il passaparola cominci a ingranare. Nella grande distribuzione un film, se non funziona nell’arco di una settimana, si smonta e sparisce letteralmente dalle sale. Al Mexico, isola di resistenza, non si fa così, almeno finché Antonio Sancassani sarà lì a difenderlo.